Salari? Meglio garantiti

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Sì anche a una no tax area a 16 mila euro

Salario minino? “Nessuno è interessato a introdurre una misura di tutela per i working poor, ma tutti cercano di approfittare dell’occasione per introdurre la regolamentazione per legge dei contratti nazionali.” Queste le parole si Roberto Di Maulo, segretario generale del sindacato autonomo Fismic Confsal.

È in corso da mesi il dibattito sul salario minimo legale, quasi tutti i partiti politici e le maggiori confederazioni sindacali hanno una propria visione. Facciamo il punto delle proposte presentate. Il Pd ha presentato tre proposte di legge. La proposta di Nannicini prevede come riferimento per il salario minimo legale i minimi tabellari stabiliti dalla contrattazione collettiva, istituendo una Commissione tecnica presso il Cnel che supervisioni il processo.

Il M5s, tramite la senatrice Nunzia Catalfo, propone un salario minimo legale di 9 euro all’ora lordi oppure quanto previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e la zona nella quale si eseguono le prestazioni, stipulato dalle organizzazioni sindacali e/o datoriali più rappresentative sul piano nazionale e che prende valore di legge.

Leu e Fratelli d’Italia hanno presentato proposte di legge in cui il salario minimo legale non è mai inferiore al 50% del salario minimo indicato da Istat, corretto da un fattore di proporzionalità regionale a livello di reddito, un indicatore della produttività del lavoro del paese e un indicatore del tasso di occupazione regionale. Si applica a tutti i contratti futuri e in essere, in assenza di un contratto collettivo nazionale che prevede un salario minimo maggiore.

Al senato, Liberi e uguali con Francesco Laforgia, propone un salario minimo legale che abbia come riferimento i minimi tabellari stabiliti dalla contrattazione collettiva, estendendoli anche ai settori non coperti dalla contrattazione collettiva.

Cgil, Cisl e Uil da sempre si proclamano contrari a un salario minimo legale, ma nell’audizione dello scorso 12 marzo presso la commissione Lavoro del senato hanno affermato di essere favorevoli a una norma di legge che fissi un salario minimo orario legale per tutti i lavoratori dipendenti che assuma come base i minimi tabellari dei Ccnl, in modo da garantire tutele retributive adeguate e indispensabili, anche per quelle forme di lavoro legate alla diffusione delle piattaforme digitali. Cgil, Cisl e Uil condividono, inoltre, la necessità di fissare i trattamenti economici così definiti con validità “erga omnes” per tutte le imprese e per tutti i lavoratori di ogni settore, riuscendo in tal modo a conferire valore legale e generale ai livelli di retribuzione di natura contrattuale.

Secondo la Confsal, sarebbe più utile introdurre il salario garantito, ovvero l’applicazione a tutti i dipendenti, compresi quelli oggi privi di tutele, come i riders, del minimo previsto dal contratto collettivo di riferimento del settore di attività, individuato sulla base della rappresentatività delle sole organizzazioni dei lavoratori, l’unica misurabile attraverso i dati sugli iscritti registrati presso l’Inps. La Confsal propone un salario minimo di 8 euro lordi esentasse, con una no tax area a 16.000 euro, che è appunto pari al reddito imponibile annuo corrispondente a un salario orario lordo di 8 euro.

L’idea di imporre un salario minimo non è completamente sbagliata, un misura che è infatti garantita in 22 paesi europei. Ovviamente il livello di retribuzione base offerta dalla totalità dei proponenti in Italia, più per motivi propagandistici che per dati effettivi, non è lontanamente equiparabile a quelli imposti per legge da alcuni membri dell’Unione europea, anche quelli applicati dai sovranisti che piacciono tanto al governo Lega-M5s.

L’Ungheria ha un salario minimo di 2,65 euro l’ora; la Repubblica Ceca di 3,10 e la Polonia l’equivalente di 2,95. La Spagna, che cresce il triplo di noi, riconosce un minimo di 6,09. I nostri riferimenti non possono essere sicuramente la Francia (10,03) o la Germania (9,19). Infatti nel 2017 in Germania, il salario minimo è stato pari al 54% della retribuzione media; in Francia al 70%. Se applicassimo in Italia un livello minimo del salario pari a 9 euro sarebbe molto alto rispetto a quello mediano del nostro paese, andando a creare una situazione insostenibile con problemi di equità, lo stesso livello in tutto il paese con costi della vita diversi, e di proporzionalità rispetto alle mansioni svolte.

Molte qualifiche professionali hanno al momento minimi contrattuali inferiori a 9 euro lordi, ovvero il limite indicato nel provvedimento all’esame del senato per un’equa retribuzione. In pratica in quasi tutti i principali contratti ad esclusione di quello del credito, ci sono livelli contrattuali con retribuzioni orarie inferiori a 9 euro. Per fare qualche esempio, per i pubblici esercizi sono sotto questa soglia i cuochi capo partita, i barman, i pizzaioli e i gelatieri.

L’impatto economico del salario minimo di 9 euro lordi sarebbe dannoso, anche considerando agricoltura e lavoro domestico esclusi dalla norma, il costo della misura stimato dall’Inps è di 9,7 miliardi per il 28% di lavoratori e per le imprese l’incremento monetario sarebbe rivolto indirettamente anche agli altri livelli di inquadramento.

Per esempio il Ccnl del commercio, dove i 9 euro minimi troverebbero applicazione per i livelli sesto e settimo portandoli al salario oggi previsto per il quinto livello. Garantire la cifra di 9 euro darebbe vita quindi a situazioni problematiche anche al sistema di contrattazione e al rispetto del salario contrattuale, fornirebbe un formidabile pretesto per quegli imprenditori che non vorranno riconoscere il resto dei diritti contrattuali di un lavoratore, rifugiandosi nel salario minimo ed evitando di attenersi alle norme dei contratti nazionali collettivi.

Non esistono solo gli ostacoli tecnici, bisogna tenere conto anche della cultura del tessuto sociale. Il contesto in Italia non è sicuramente di ordine e legalità, anche per questo motivo fissare un salario minimo troppo elevato incoraggerebbe una fuga delle imprese nell’attività in nero.

 

Attualmente, con l’assenza di un salario minimo, le aziende hanno la possibilità di non applicare il Ccnl di categoria rispettando però l’obbligo definito dall’art. 36 della Costituzione [“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”].

La contrattazione collettiva non ha quindi in questo momento un valore vincolante erga omnes e non esistono scorciatoie legali per renderla tale, come dimostrato dalla legge Vigorelli che nel 1958 cercava di conferire ai Ccnl questo valore ma è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte suprema perché in conflitto con l’ar. 39.

Sull’argomento è intervenuto Walter Galbusera, presidente della fondazione Anna Kuliscioff dichiarando che “L’articolo 39 della Costituzione italiana, attribuisce alle organizzazioni sindacali la personalità giuridica e la potestà di stipulare, rappresentate unitariamente in proporzione ai propri iscritti, contratti collettivi con efficacia erga omnes per i lavoratori delle diverse categorie. La condizione è che si registrino secondo le norme di legge e che i loro statuti sanciscano un ordinamento democratico. Nel disinteresse della pubblica opinione, con la sostanziale condivisione delle maggiori organizzazioni sindacali, si delinea un progetto sotterraneo di revisione costituzionale, avviata con un disegno di legge da parte della senatrice Nunzia Catalfo a cui si accompagna un ddl del senatore Pd Nannicini. Entrambi hanno l’obiettivo dichiarato di stabilire un “salario minimo” per dare attuazione all’articolo 36 della Costituzione il cui effetto sarebbe però anche quello, seppur in via indiretta, di ‘manomettere’ l’articolo 39. In passato vi furono analoghi tentativi, come accadde per la Legge Vigorelli, che abilitava il Governo ad emanare decreti legislativi ricettivi delle norme dei contratti collettivi di diritto comune. Fu abrogata dalla Corte Costituzionale perché avrebbe finito per sostituire al sistema costituzionale un altro sistema arbitrariamente costruito dal legislatore e pertanto illegittimo.bAbbandonando il percorso indicato dai Padri Costituenti, l’effetto potrebbe essere quello di attribuire ai soli gruppi dirigenti di Cgil, Cisl, Uil e Confindustria la rappresentanza presunta ope legis che li trasformerebbe in fonti di produzione giuridica attraverso l’estensione erga omnes dei contratti collettivi da essi sottoscritti. In sostanza si otterrebbe l’applicazione dell’articolo 39 senza rispettarne i presupposti indicati aggirando le condizioni poste dai costituenti per ottenere gli stessi risultati.”

Secondo la Fismic Confsal, spiega Di Maulo: “Al di là della proposta della Confsal che opera un tentativo di contemperare il vantaggio per i lavoratori con l’introduzione di una no tax area alleggerendo i costi dell’introduzione del salario minimo per le aziende, ma aggravando in maniera consistente il bilancio dello Stato, ci sembra di poter affermare che nessuno è interessato a introdurre una misura di tutela per i working poor, ma tutti cercano di approfittare dell’occasione per introdurre la regolamentazione per legge dei contratti nazionali stipulati dalle organizzazioni datoriali o sindacali maggiormente rappresentative. Questo compiendo una manomissione dell’art.39 della costituzione, la quale prevede esplicitamente e in maniera tassativa che i contratti per essere validi erga omnes debbano essere stipulati da organizzazioni sindacali e datoriali registrati che presentino dei bilanci validi a norma di legge e si sottopongano al controllo da parte dello Stato degli elenchi dei propri iscritti. Ritengo che il salario minimo garantito debba prevedere misure simili a quelle dei voucher, comprensivi di ogni istituto diretto e indiretto della retribuzione. Il valore medio al netto dei contributi previdenziali e delle tasse di tale salario minimo garantito sarebbe a questo punto vicino al 50% del valore mediano della retribuzione dei lavoratori e comparabile quindi ai 5 euro l’ora netti. Questo dovrebbe essere accompagnato da sanzioni pesanti, contributive e fiscali, nei confronti di tutte quelle aziende che oggi applicano un contratto collettivo nazionale del lavoro e che vogliono ritirare l’adesione al solo fine di limitare la retribuzione dei lavoratori al valore del salario minimo garantito. Successivamente si apra finalmente in maniera seria una discussione che porti alla riforma della contrattazione, la quale coinvolga tutti i soggetti presso il Cnel e non presso il ministero del Lavoro, al fine di valutare ogni contratto nazionale non solo per i valori retributivi ma più in generale per la qualità della contrattazione realizzata. La Confsal ha proposto nel recente passato che una commissione certifichi con un bollino di qualità i contratti che superino l’esame.

Rimane aperto il problema della perimetrazione contrattuale che si pone fortemente nei nuovi settori, per esempio la segmentazione del settore commercio, terziario e servizi, ma anche settori tradizionali come il metalmeccanico in cui si pone un problema aggiuntivo: se la proposta Catalfo fosse già legge, tra il Ccsl applicato nell’automotive e il contratto Federmeccanica quale dei due sarebbe giudicato leader? Considerando anche che a parità di classificazione del personale oggi la retribuzione prevista dal Ccsl è più alta di quella prevista dal Ccnl federmeccanica.

Dobbiamo forse pensare che il Ccnl Federmeccanica sia un contratto pirata perché rischia di fare dumping nei confronti del Ccsl Fca-Cnhi?

Lasciamo ogni argomento a se stante e non mescoliamo il salario minimo con rappresentanza e rappresentatività. I due temi devono essere discussi separatamente altrimenti c’è il rischio che si faccia finta di introdurre il salario minimo a tutela dei working poor ma in realtà si voglia aggirare l’art. 39 della Costituzione ponendo i Ccnl estesi erga omnes”.

Salari? Meglio garantiti