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Applicazione distante dai buoni propositi
Intervento del segretario generale Fismic sul reddito di cittadinanza

Di Roberto Di Maulo
segretario generale Fismic Confsal

Il fatto che il governo attuale si impegni a migliorare e ampliare l’efficacia delle misure contro la povertà messe in campo dai tre governi precedenti va sicuramente salutato come un fatto in sé positivo. Le misure contenute in questo decreto, però, sembrano congegnate male.

Per la misura contro la povertà il governo non tiene conto di alcune problematiche, tutte di importanza cruciale. Una misura come questa, oltre che di una copertura finanziaria, necessita di una copertura amministrativa: cioè di strutture pubbliche capaci di dare attuazione a quello che la nuova legge prevede. È davvero impensabile che l’Inps e i centri per l’impiego siano in grado di compiere in tempi brevi tutti i nuovi e complessi adempimenti previsti nel decreto, in relazione a ciascuna delle centinaia di migliaia di domande che affluiranno da marzo.

Questo soprattutto ove si consideri l’attuale stato dei centri per l’impiego, oggi sotto organico e privi delle competenze necessarie per realizzare quell’incrocio tra domanda e offerta che si palesa indispensabile per realizzare quello che sembra essere l’obiettivo della legge, ovverosia creare nuova occupazione e non puro assistenzialismo.

Inoltre l’assunzione dei cosiddetti “navigator” appare non funzionale allo scopo dichiarato. Essendo stretti i tempi per formare del personale in una materia così specialistica e delicata come quella dell’avviamento al lavoro dei disoccupati e degli inoccupati e il tipo di contratto di lavoro (Co.Co.Pro.) assolutamente non in grado di essere attrattivo. Anche a valle dell’assunzione dei “navigator” il personale dei centri per l’impiego risulta essere numericamente e professionalmente non in grado di svolgere il compito che la legge gli assegna. Sarebbe stato meglio dare un maggiore ruolo alle agenzie per il lavoro, alle agenzie di somministrazione e agli stessi enti bilaterali e fondi interprofessionali che sulla materia dell’avviamento al lavoro e della formazione professionale mirata hanno sicuramente maggiori skill professionali, attitudini ad operare sul campo e migliori competenze. Inoltre la questione è ancora più complicata da una recente sentenza della Cassazione 3314/2019 che ha giudicato inadeguata della collaborazione continuativa e coordinata per “soggetti che svolgono compiti finalizzati all’erogazione di servizi propri del CpI”.

Il fatto di avere centrato tutto sui centri per l’impiego in un lasso di tempo così breve rischia seriamente di non far partire la macchina che diverrà, al di là delle buone intenzioni dichiarate, solo una forma di assistenzialismo non in grado di produrre quei nuovi posti di lavoro che sarebbero invece indispensabili al Paese per aumentare in modo stabile la ricchezza prodotta.

Affidare poi le funzioni ispettive contro gli abusi dei furbetti esclusivamente agli organi ispettivi sul territorio degli ispettori del lavoro rischia di affidare il compito di svuotare il mare con un cucchiaino da tè, in considerazione del numero esiguo di ispettori e della molteplicità di funzioni che questi devono già svolgere.

Bisogna considerare inoltre che per circa tre quarti dei poveri assoluti, a cui viene offerto questo sostegno, è impensabile un inserimento nel tessuto produttivo per ragioni di età o di handicap psico-fisico. La misura varata dal governo è stata strutturata essenzialmente come una misura di politica attiva del lavoro, ma essendo diretta a una platea per tre quarti irrimediabilmente estranea al mercato del lavoro, nella maggior parte dei casi non potrà funzionare.

Come analizzato dall’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate a cura del centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali: il reddito di cittadinanza, sconfessando di fatto la sua denominazione, assume come il precedente Rei la veste di una misura di contrasto alla povertà assoluta. Nel nostro Paese, in realtà, sono già esistenti più di un reddito di cittadinanza. Secondo l’Osservatorio “grazie alle generose leggi del passato su baby pensioni, prepensionamenti e prestazioni di inabilità e invalidità che sono in pagamento dai 35 ai 43 anni (un periodo così lungo da essere incompatibile con un sistema pensionistico), possiamo ben affermare che già oggi nel sistema italiano sia in funzione un reddito di cittadinanza mascherato di cui beneficiano oltre 10 milioni di pensionati, tra i quali più di 8 milioni sono assistiti totalmente (oltre 4 milioni) o parzialmente dallo Stato. Ci sono poi altri cittadini non pensionati, assistiti dallo Stato o da organizzazioni che beneficiano di contributi statali o agevolati fiscalmente. Oltre alla pensione sociale (460 euro), diversi pensionati percepiscono anche sussidi comunali (tra i 100 e 300 euro), vivono in case popolare con affitto calmierato e, in molti casi, hanno agevolazioni sui mezzi pubblici e ad altri servizi erogati a livello locale: quindi, nel complesso, hanno sostegni che ammontano a un valore superiore ai fatidici 780 euro al mese, ma lo Stato non lo sa perché noi non abbiamo una banca sull’assistenza, lacuna aggravata dalla mancanza di un efficace controllo. La stessa considerazione vale per un gran numero di cittadini assistiti dagli enti locali o dallo Stato con il Rei o altre misure, tutte basate sull’ISEE, che nel nostro Paese e facilmente aggirabile… Come si vede, di persone che in un modo o nell’altro beneficiano di un reddito di cittadinanza ante litteram ce ne sono tante: forse più di 12 milioni. E il costo? Per la sola assistenza, lo Stato ha trasferito nel 2017 all’ente erogatore – l’Inps – circa 110 miliardi a totale carico della fiscalità generale, ossia soprattutto di quel 30% di cittadini che le tasse le paga davvero. A questi si devono sommare altri 10 miliardi erogati da Enti locali e oltre 12 miliardi per il sostegno alla casa. Un totale enorme pari a oltre 132 miliardi l’anno (al netto della spesa sanitaria), ben di più dell’intero sistema pensionistico”.

Se pensiamo a cosa è stato fatto in passato in merito di politiche attive del lavoro ci viene in mente il successo dell’assegno di ricollocazione. Come evidenzia Claudio Negro della fondazione Anna Kuliscioff: “L’Assegno di ricollocazione era stato pensato nel Jobs Act come strumento per facilitare la transizione da un lavoro all’altro, per sdrammatizzare i licenziamenti e agevolare la mobilità nel Mercato del Lavoro. Nel Decreto di ciò non si serba traccia: ai percettori di Naspi o di Cigs (cassa integrazione straordinaria) per esuberi non toccherà nulla. A meno che i percettori di Naspi rientrino (e non saranno moltissimi) nei requisiti per il RdC. La stessa inconsapevolezza e indifferenza per il significato delle Politiche Attive per il Lavoro dimostrata sui Patti Lavoro e Formazione viene qui ribadita: nessun percorso di ricollocamento per chi perde il lavoro, ma soltanto lo sprofondamento nel calderone del Reddito di Cittadinanza (e se non sei abbastanza povero, niente…!). Si vede che al Ministero pensano di aver già dato risposta a questi problemi reintroducendo la Cassa Integrazione per cessazione di attività…”

L’ulteriore errore del governo sta nel pensare che il mercato del lavoro funzioni ancora come negli anni ’50, quando accadeva che le imprese presentassero all’ufficio di collocamento la richiesta di lavoro piuttosto generica, come impiegato d’ordine o manovale. Oggi per ciascun posto di lavoro ogni impresa cerca la persona specificamente adatta, scegliendo attentamente quella che, oltre alle caratteristiche personali necessarie, abbia anche la motivazione giusta. Nessuna impresa presenta al centro per l’impiego un’offerta di lavoro impersonale, buona per qualsiasi sconosciuto. Viceversa, se una persona non vuole che l’offerta le venga rivolta, basta che si presenti al primo colloquio mostrandosi poco motivata: l’impresa si guarderà bene dall’insistere nella propria “offerta di lavoro”. Così il meccanismo di “condizionalità” previsto dal governo si rivelerà subito del tutto inconsistente.

Questo conferma quanto sia illusoria la visione secondo la quale basterà trasferire alle imprese un po’ di incentivi ad assumere per avere dei ritorni positivi in termini di nuova occupazione. Non è mai vero che il lavoro si crea per legge e non possono certo essere qualche migliaia di euro di decontribuzione sul costo del lavoro, dati in modo non strutturale, a fare assumere ad una impresa (che cerca una specifica competenza accoppiata da una forte componente positiva motivazionale) e a fargli prendere in carico una risorsa non professionalmente adatta e scarsamente motivata.

Esiste poi l’abusata problematica, ma il fatto di essere abusata non toglie che sia drammaticamente vera, dello squilibrio geografico tra i percettori potenziali del reddito (collocati nel sud del Paese per il loro quasi 60%) con quelli del centro e del nord (potenzialmente intorno al 40%). Al di là della ben nota collocazione delle imprese, basterebbe il semplice dato demografico per capire il forte squilibrio che si produrrà tra domanda e offerta in termini di richieste di lavoro. Infatti al sud risiede circa il 35% del totale della popolazione (contro il circa 60% dei potenziali percettori), mentre al centro e al nord la dinamica si rovescia. Questo produrrà inevitabilmente uno squilibrio territoriale tra quelli che percepiscono, collocati prevalentemente nelle aree del Mezzogiorno e le domande di lavoro, che verranno presumibilmente dalle aree del nord del Paese.

Conclusivamente si tratta di un provvedimento che parte da una buona idea di base, ma che troverà un’applicazione molto distante dai buoni propositi, rivelandosi alla fine una mera assistenza che non produrrà gli auspicati impatti, neanche sul miglioramento del Pil. Infatti, si dubita fortemente che il tasso moltiplicatore sia di 1 a 4, se non superiore, come dichiarato dal governo. Se il reddito non produrrà effetti largamente positivi in termini di creazione di nuovi posti di lavoro ci troveremo, al massimo, nella creazione di quello che viene chiamato in economia il “paradosso della cameriera”, con effetti molto limitati in materia di moltiplicatore tra risorse impiegate ed effetti attesi sulla crescita del Pil.