Sì a un salario minimo. No a norme dannose sulla rappresentatività

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Roberto Di Maulo segretario generale Fismic Confsal

In Italia, il salario minimo garantito purtroppo ancora non c’è, ma serve! L’argomento torna in auge non solo a livello teorico, ma anche e soprattutto pratico in considerazione del disegno di Legge n.658 “Disposizioni per l’istituzione del salario minimo orario” presentato al Senato dalla senatrice Nunzia Catalfo presidente della Commissione Lavoro.  A tal proposito è bene riprendere quanto già contenuto in un precedente articolo che riguardava la necessaria riforma della contrattazione: la Fismic, congiuntamente alla propria confederazione Confsal, ritiene urgente varare una legge che stabilisca il compenso minimo orario che rappresenti il “pavimento” al di sotto del quale nessun lavoratore può essere retribuito, al quale si affianchi una contrattazione Intersettoriale valida per tutti i settori dell’impiego privato che stabilisca i diritti minimi uguali per tutti. A questi due primi livelli va aggiunto un Ccnl, alleggerito dai compiti stabiliti dal salario minimo e dalla contrattazione intersettoriale, che definisca l’orario di lavoro settimanale, la retribuzione agganciata all’inflazione misurata dall’Ipca e una griglia di inquadramento professionale che premi non più le mansioni ma le competenze certificate. Questo può dare spazio alla negoziazione di prossimità che dovrà svilupparsi in tutte le aziende con l’obiettivo di legare quote sempre maggiori di retribuzione a crescita di produttività, qualità e miglioramento dell’ambiente di lavoro.

Questa premessa si è resa necessaria per ribadire il nostro favore alla definizione anche nel nostro Paese di un salario minimo orario di legge, la cui entità è definita in 9 euro comprensive degli oneri contributivi e previdenziali. Tale misura, ancorché risulta inferiore ai 10 euro orari previsti dalla proposta Damiano e altri della precedente legislatura, ci sembra sufficiente ad assicurare un plafond minimo di retribuzione dignitosa, tra l’altro paragonabile a quella in vigore nei paesi maggiori d’Europa, come la Germania.

Il disegno di Legge in questione, attualmente in discussione alla Commissione Lavoro del Senato, che prevede di fissare il salario minimo legale a 9 euro l’ora non incontrerà l’entusiasmo di Cgil-Cisl-Uil che temono di essere delegittimati e scavalcati dall’intervento legislativo in materia di contrattazione della retribuzione, tanto da rendere vani tutti i tentativi di darne attuazione pratica sperimentati nella precedente legislatura dal governo Renzi.

Il sindacato tradizionale si è storicamente affidato all’applicazione rigida dei Ccnl di categoria e quando questa veniva meno si è affidato alla prassi giurisprudenziale, che per molti anni ha funzionato egregiamente, di equiparare la giusta retribuzione richiamata nell’articolo 36 della Costituzione ai minimi contrattuali nazionali, ma in un regime di sostanziale monopolio della contrattazione. Ora che quel monopolio si è rotto e anzi si pone il problema spesso in modo strumentale del suo contrario, la definizione di un salario minimo per via legislativa non è più rinviabile.

Non è più rinviabile proprio perché la definizione del salario minimo per via legislativa recepisce in via definitiva il concetto di congruità della retribuzione, presente nella Costituzione e nella prassi giurisprudenziale. Il recepimento in via definitiva però rende del tutto inutili gli artt. 3 e 4 che sono stati ugualmente proposti all’attenzione del legislatore all’interno del disegno di legge. Ci chiediamo perché se viene approvato il salario minimo di legge da applicare in tutte le situazioni (contrattuali, autonome, para subordinate, temporanee, ecc.), i proponenti hanno sentito il bisogno di aggiungere gli altri articoli? E cosa dicono gli altri articoli?

Nell’artt. 3 e 4 i proponenti il disegno di legge del Senato hanno sentito il bisogno di definire concetti come la rappresentatività, la determinazione di organizzazioni sindacali e datoriali maggiormente rappresentative?

Quindi proporremo alla Confsal di chiedere nelle audizioni la cancellazione degli artt. 3 e 4 del Ddl in discussione al Senato oltreché alcuni emendamenti di minore portata agli artt. 1, 2 e 5 del Ddl 658/2018.

Rimane aperta la questione della rappresentatività e della riforma della contrattazione. La Confsal sostiene che per avere la patente di Ccnl non è sufficiente il solo requisito quantitativo dei soggetti stipulanti, ma valutata la qualità dei contenuti di un Ccnl. Infatti, non è raro che in un settore merceologico sia proprio quello stipulato da Cgil-Cisl-Uil inferiore nella retribuzione e nei diritti rispetto ad altri Ccnl del medesimo settore. Quindi dovremmo giudicare maggiormente comparativamente rappresentativo un contratto che dà meno retribuzione e meno diritti e definire un contratto in dumping uno che offre condizioni migliori ai lavoratori? E questo solo perché è stato firmato da Cgil-Cisl-Uil? Secondo la volgata maggiormente di moda si direbbe di sì, ma questo è assolutamente illogico oltre che ingiusto. Oppure, in molti casi oggigiorno i Ccnl contemplano al loro interno importanti capitoli di welfare a favore dei lavoratori: di questo se ne deve tenere conto, oppure no?

A nostro avviso dovrebbe costituirsi un osservatorio presso il Cnel, coinvolgendo oltre che il Ministero del Lavoro anche istituti come Ipsoa, Inps e Istat che, sulla base di parametri concordati, dovrebbe rilasciare una certificazione di qualità a contratti che presentano certe caratteristiche virtuose, bocciando gli altri.

Non siamo neanche contrari alla definizione di una maggiore perimetrazione delle aree merceologiche dei Cccnl, sapendo che oggi esiste un’area grigia sempre più vasta in cui galoppano libere associazioni imprenditoriali di dubbia rappresentatività che, al fine di proselitismo, permettono ad aziende poco serie di volteggiare da un Ccnl all’altro. Un valzer continuo alla ricerca di quello che paga di meno e che offre meno diritti ai lavoratori. Esistono criteri di legge precisi che definiscono quando un’azienda è Pmi, grande industria, artigiana o cooperativa e vanno rispettati.

Più semplice ancora, a nostro giudizio, il ragionamento sulla rappresentatività, di cui parliamo di seguito senza arrivare a citare le violazioni al dettato costituzionale che ha cercato di salvaguardare il pluralismo sindacale. Innanzitutto all’art. 3 è citato addirittura il vecchio T.U. del 10 gennaio 2014, probabilmente al Senato non sanno che quell’accordo è stato ritoccato almeno in quattro occasioni e nell’ultimo testo in modo non marginale, data la disponibilità dei datoriali a farsi contare anche loro, cosa mai avvenuta prima. Ma la questione non è certo questa: noi pensiamo che continuare a scimmiottare l’accordo con l’Aran per il Pubblico impiego. non sia più proponibile per i seguenti motivi:

  1. Nel Pubblico impiego si vota per le Rsa in un’unica fase, nel privato si vota tutti i giorni dell’anno;
  2. Nel Pubblico impiego esiste un unico punto dove si concentrano le iscrizioni al Sindacato, nel privato no;
  3. Nel Pubblico impiego tutti possono raccogliere le deleghe, nel privato possono farlo esclusivamente i firmatari dei Cccnl per via dell’art. 19 legge 300/70 riformato dal referendum dei radicali;
  4. Nel Pubblico impiego i comparti sono individuati precisamente, nel privato non possono essere certo i Ccnl a definire la perimetrazione su cui effettuare la verifica della rappresentatività, ma il settore merceologico. Per fare un esempio concreto che riguarda la Fismic, se la conta si fa sul Ccnl Federmeccanica siamo probabilmente sotto la soglia del 5%, se invece la conta si effettuasse sull’intero comparto metalmeccanico, Fca e Cnhi comprese, la Fismic sarebbe sopra la fatidica soglia del 5%.
  5. Nel Pubblico impiego l’accordo Aran sulla rappresentatività è stato applicato in pochi giorni, il famoso T.U. del 14/1/2014 sono 5 anni che non viene applicato nella sua interezza, se non con forzature spesso giudicate illegittime dalla Magistratura, in quanto sono stati raccolti a cinque anni di distanza pochi dati, confusi e spesso contradditori.

Come si vede emblematicamente, la materia della rappresentatività e della riforma della contrattazione è così complessa che consigliamo agli augusti senatori e soprattutto alla presidentessa Catalfo di depennare l’art. 3 e 4 e di riscrivere l’art. 5 del Ddl 658.

Bene l’idea di istituire nel nostro Paese il salario orario mino (anche se 9 euro sono oggettivamente pochi) perché rappresenta il vero freno a stipulare contratti in dumping ed è un atto di civiltà. Male il tentativo surrettizio di infilare dentro un Ddl il cui titolo è “Disposizioni per l’istituzione del salario minimo orario” delle confuse e illogiche norme sulla rappresentatività e sulla riforma della contrattazione che rischiano di produrre dei guasti in grado di mettere in ombra perfino la positività dell’idea di introdurre nel nostro Paese il salario minimo invalicabile.

 

Di Roberto Di Maulo
segretario generale Fismic Confsal

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